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Interview

Interview to Sergio Strizzi by A. Maraldi

- Qual è stato il tuo approccio con la fotografia?

 

Iniziai con un mio carissimo amico, Mario Meloni, poi divenuto un bravo fotografo. Avevamo la stessa età ed eravamo compagni di classe. Suo padre aveva uno studio fotografico nel quartiere e, all'uscita di scuola, andavamo sempre nel laboratorio a combinare disastri, a giocare col magnesio. Poi Mario andò a lavorare alla Publifoto. Un giorno mi disse: <<Senti cercano un'altro ragazzino. Perché non vieni anche tu, così lavoriamo assieme>>. E io accettai. Lui poi passò con Sandro Vespasiani, un altro studio fotografico mentre io rimasi ancora un po' lì. Pulivo lo studio, ero un po' il ragazzo di bottega, quello che arrivava prima degli altri.  Una domenica mattina, sarà stato nel '46, leggo sul giornale che c'era una manifestazione di modellismo aereo, la prima del dopoguerra. Passo dall'agenzia, prendo una Rolleicord (?) e  due rullini.  Vado sul posto dov'era fissata la manifestazione e scatto 12 fotografie. Le mie prime fotografie. Torno in agenzia, sviluppo e stampo le foto, prendo la bicicletta e faccio il giro dei giornali per venderle. Ripasso in agenzia per lasciare i buoni di consegna e le ricevute dei pagamenti. Il giorno dopo, mentre sono sull'autobus vedo "Il Popolo" con una mia fotografia in prima pagina. Carrese, il titolare dell'agenzia, mi chiede spiegazioni, io gliele do e lui  allora mi mette in mano la sua macchina personale, una Super Riconta (?), a mo' di promozione sul campo. Io ho continuato per un po' a fare il ragazzo di bottega ma quando non c'era molto da fare Carrese mi diceva: <<Prendi la mia macchina,  vatti a fare un giro e scatta quello che vuoi>>.  Io andavo nelle borgate a documentare la miseria o in via della Conciliazione che veniva resistemata o in Parlamento per fotografare i deputati. Tutto materiale che finiva poi nell'archivio dell'agenzia.

- Quanti anni avevi?

 

Avevo 15, 16 anni. Poi nel '48 sono  diventato fotografo titolare, anche se rimanevo sempre "Sergino". Cominciavo a fare servizi importanti ma per i colleghi più grandi, quarantenni e oltre, rimanevo sempre il ragazzino a cui chiedevano magari di andare a a comprare le sigarette. Poi un giorno arriva il direttore generale delle varie agenzie Publifoto in Italia - dovevano essere 6 o 7 - ed esaminando alcune foto chiede: <<Chi le ha fatte queste? E queste altre?>> riferendosi alle mie. Avuta la risposta, dice perentorio: <<Bravo il ragazzino, gli altri dovrebbero andarsene a casa>>. Io rimasi sorpreso e non poco imbarazzato.  Seguii così le elezioni politiche del '48. Poi dopo le elezioni, nel '49 sono passato con Sandro Vespasiani, un grande fotografo che lavorava quasi esclusivamente per <<l'Europeo>>. Era un appassionato di pesca e questa sua passione diverse volte lo faceva ritardare. Ma se anche arrivava sull'avvenimento dopo gli altri, riusciva comunque a inventarsi la foto. Mi voleva bene ma non mi pagava. In occasione dell'arrivo a Roma di Greta Garbo ho conosciuto Ivo Meldolesi, titolare di un'altra agenzia, il quale mi ha proposto di lavorare con lui, con una paga da fotografo. Accettai e rimasi con lui fino a 20 anni. Ricordo che nel 1951 mi mandò a Berlino Est a fare il primo festival della gioventù comunista, con Elio Petri che scriveva per  l' <<Unità>> e Gillo Pontecorvo inviato da <<Vie Nuove>>.  Seguivo tutto, cronaca, sport, attualità. Poi mi chiamarono per seguire un film di carattere sportivo, Gli undici moschettieri, alla vasca navale, negli stabilimenti Ponti-De Laurentiis. Ne feci un secondo, un terzo e così via. Ero diventato nel frattempo amico della famiglia De Laurentiis, conoscevo bene Silvana Mangano e cominciai a lavorare per loro. E in seguito me ne sono andato e ho aperto un mio studio in via dell'Oca, vicino a Piazza del Popolo.

- Alla De Laurentiis sei rimasto comunque diversi anni

 

Ho lavorato con Dino per circa 10 anni, facendo, tra l'altro film importanti come La grande guerra, L'oro di Napoli, molti film di Totò, compreso Totò a colori. Lavoravo anche per altre produzioni, ma sempre in qualche modo legate alla De Laurentiis.

 

- Che personaggio era De Laurentiis, allora?

 

Per come l'ho conosciuto io, era  una persona capace di sfruttare al meglio le capacità  di chi lavorava per lui. Capace di lusingarti se gli servivi e di trattarti in malo modo nel caso contrario. Un grande animale da cinema, di grandissimo intuito ma con cui non ho mai legato del tutto. Mi trovavo meglio con Alfredo, suo fratello.

 

- In quel periodo hai seguito anche Due notti con Cleopatra. Le foto a seno nudo della Loren sono tue?

 

Si le ho fatte io. Due notti con Cleopatra, una produzione Ponti-De Laurentiis si girava alla stadio Flaminio. Una sera, in un momento di pausa mi chiama la Loren, ci appartiamo all'aperto, per fare qualche foto. Lei indossava una specie di tunica. All'improvviso la lascia cadere e rimane nuda. Io le faccio mettere le mani sul seno e scatto le foto. Per evitare problemi, metto stampe e negativi in una busta e le faccio avere a Ponti. Fu poi lui a farle circolare mentre lei ha pensato per molto tempo che fossi stato io. Io non glielo mai detto. Dopo anni se ne resa conto e quanto agli inizi degli anni '70 mi ritrovò sul set de L'uomo della Mancha abbiamo fatto pace.

 

- Hai ricordato Totò a colori. Com'è stata la lavorazione di quel film? Hai avuto problemi a lavorare in un film a colori?

 

No, assolutamente. Anzi mi sono trovato avvantaggiato perchè la pellicola usata era una Ferraniacolor con soli 6 asa di sensibilità e quindi il set era illuminatissimo e io scattavo a un cinquecentesimo, come si fossimo in pieno sole. Comunque il film l'ho fotografato quasi tutto in bianco e nero. Ho fatto anche del colore, ma poco. Perchè poi non si usava.

 

- Che pellicole usavi?

 

Si andava a periodi. Usavo a volte Ilford, Ferrania, e anche Dupont. Lo stesso discorso vale per la carta fotografica. A momenti era lodata la Kodak, mentre ci sono stati momenti in cui la Ferrania aveva una carta stupenda. Come formato, usavo sia il 6x6 che  il 35 mm mentre mi servivo di varie macchine, Rolleiflex, Laica e altre. Un uso legato alle circostanze e alle necessità.

 

- Tornando alla tua carriera, cosa è successo dopo che ti sei messo in proprio?

 

Lo studio, aperto con un mio amico, era bello ma per una decina di mesi  non abbiamo fatto niente perchè De Laurentiis mi aveva scatenato attorno una guerra. Lui voleva che io tornassi ma io ho tenuto duro. Poi sono arrivate varie richieste e ho ripreso a lavorare. Ho fatto con Antonioni L'eclisse, film che mi portò a Zorba il greco perché "Fotografare" pubblicò un mio ampio servizio. Le foto vennero viste dall'ufficio stampa della Twenty Century Fox che si occupava del film di Cacoyannis, il quale era scontento del fotografo greco. Così mi chiamarono e mi trovai in Grecia.

 

- Ma il fotografo di scena de L'eclisse non era Vittorugo Contino?

 

Contino seguì la prima parte della lavorazione del film, poi se ne andò. E allora subentrai io. La stessa cosa avvenne sul set del film di Rosi, Le mani sulla città. Vittorugo mi piace molto, anche dal punto di vista umano perchè ha un carattere simile al mio.Tornando ad Antonioni, mi ricordo che già mi voleva per L'avventura, che non feci perchè impegnato altrove. Antonioni l'avevo conosciuto qualche anno prima a Belgrado, sul set de La tempesta, altra produzione De Laurentiis con la regia di Lattuada, dove dirigeva la seconda unità. Su quel set ho lavorato molto con lui e lui ha apprezzato le mie foto. Per questo poi mi ha chiamato. Mi apprezzava. Anche se c'è da dire che il nostro rapporto è sempre stato conflittuale. Ho avuto con lui delle litigate furiose. Una che ricordo benissimo avvenne nel corso della lavorazione de La notte. Arrivò sul set un giornalista francese di "Paris Match", un amico che già conoscevo e di cui ero stato ospite anche a casa sua a Parigi. Lui, essendo solo, mi chiese gentilmente di scattargli qualche foto per il giornale.  Cosa che feci con piacere. Alla sera, mentre eravamo a tavola mi ringraziò pubblicamente. Antonioni sentendolo, mi disse: <<Bene Sergio, adesso vai al laboratorio e mi fai vedere le foto>>. Lui voleva il controllo su tutto. Io un po' esasperato gli risposi in malo modo. Poi ci siamo riappacificati e ho finito in film. Nonostante questo, Antonioni continuava a chiamarmi. Nel corso della mia ormai lunga carriera non sono mai andato a chiedere lavoro a nessuno. E' questo il motivo della pausa di una decina di mesi all'apertura del mio studio. E ancora oggi è così. La mia non è presunzione ma imbarazzo.

-  L'impatto con il set com'è stato?

 

Per certi aspetti traumatico, perchè occorreva rispettare un certa ritualità e adattarsi a ritmi di lavoro strani, con lunghe pause. Durante quelle pause, a volte, inforcavo la mia motocicletta, sfrecciavo verso Ostia, facevo un bagno veloce e tornavo sul set. Poi piano piano ti affini e arrivi a una tua professionalità.

- C'erano dei fotografi a cui facevi riferimento?

 

No. Stimavo alcuni fotografi, Di Giovanni, ad esempio era bravissimo, ma non avevo riferimenti. C'è da dire che diversi fotografi erano poco più che mestieranti. Non mi ispiravo a nessuno, scattavo e basta. Scattavo di tutto, scena e  fuori scena.

- Con Monicelli, oltre a La grande guerra, che cosa hai fatto?

 

Ho fatto mezzo Arrivano i colonnelli. Mezzo perchè un giorno si doveva girare a Ostia, nella caserma della finanza, almeno questa era l'indicazione ricevuta. Quel giorno non erano previste riprese ma la scena era stata montata esclusivamente per il fotografo. Io non lo sapevo. Invece di arrivare all'una, sono arrivato alle cinque. E io, quando l'ordine del giorno parla di comparizione alle nove, mi presento alle 8,30. Ho fatto sempre così. Per una questione di serietà. Il mio ritardo era dovuto a false indicazione avute da un addetto della produzione. Arrivai a Ostia alla caserma della finanza ma non c'era nessuno e nessuno ne sapeva niente. Passai poi a quella della polizia, stessa cosa. Così pure dai carabinieri e dalla polizia portuale. Che disastro. Nel mio peregrinare trovai una persona che mi suggerì la vecchia caserma in disuso, in mezzo al bosco. La troupe era lì. Monicelli si arrabbiò molto, e dio me ne andai. Dopo tanti anni Monicelli mi ha voluto per Cari, fottuitissimi amici. Mi ha fatto chiamare lui, appositamente. E quel film è stata per me un'esperienza bellissima. Stavamo sempre assieme.

 

- L'esperienza de La grande guerra

 

Un'esperienza meravigliosa. Un grande film, bello anche da fotografare. Con Gassman entrai presto in amicizia mentre ebbi più problemi con Sordi. Completamente diversa era la Mangano, una vera signora. Molti la vedevano distaccata - era pur sempre la moglie del produttore - ma la sua era essenzialmente timidezza. La Mangano l'ho seguita in sei sette film, da L'oro di Napoli a Il giudizio universale di De Sica. Quasi tutti i grossi nomi del cinema italiano - De Sica, Rossellini, la Magnai - li avevo già comunque conosciuti, fin dal '48 quando seguii come reporter le manifestazione in difesa del cinema italiano. A proposito di Anna Magnani ricordo un episodio curioso. Lei in estate mandava il figlio a Montecavo (?), sopra Frascati, accompagnato da una donna. Un giorno capitai li e riuscii a fare le foto al bambino, che era poliomielitico. Tornai a Roma -  lavoravo ancora per Meldolesi - per sviluppare e stampare. Siccome si era fatto tardi, lasciai tutto in ufficio. Anna Magnani, nel frattempo, mi stava cercando per tutta la città, perchè telefonando alla governante aveva saputo delle foto al figlio. La incontrai in via Sistina ed era furiosa. Tornai immediatamente al laboratorio, presi stampe e negativi e glieli consegnai. Lei poi mi ringraziò moltissimo. Meldolesi, saputo dell'accaduto, si arrabbiò tantissimo, ma aveva ragione la Magnani. Singolare che con lei non ho mai lavorato, nè con Rossellini. D'altronde come ho detto, per una decina di anni ho seguito soprattutto le produzioni della De Laurentiis.

 

- Neanche con Fellini hai mai lavorato?

 

Con Fellini ho avuto una storia strana. Nel periodo che  preparava La strada, andavamo in macchina, lui, io e sua moglie, verso Tivoli e l'entroterra per fare delle scene fotografate. Provava il film con la Masina ed io scattavo le foto. Poi avrei dovuto seguire il film. Poi accadde che L'oro di Napoli e La strada, entrambe prodotte da De Laurentiis, partirono contemporaneamente. Io scelsi il film di De Sica, sia per il cast (c'erano Totò, la Loren, la Mangano) che per la città, mentre La strada si sarebbe dovuta girare tra i monti d'Abruzzo. Fellini se l'è legata al dito. Anche se poi mi ha chiamato altre tre volte, per Roma, Amarcord e La città delle donne. Amarcord si girava all Vides e nello studio accanto io ero sul set di Lucky Luciano di Rosi. Un giorno venne Fellini e tentò di convincermi a seguire il suo film ma io non me la sentivo di subentrare a Pierluigi a film già iniziato. Ha poi chiamato Secchiaroli e Pinna. In quel periodo ero comunque spesso all'estero.

 

- Com'è avvenuto il contatto con l'estero?

 

Dopo L'eclisse e non mi ricordo se prima o dopo Cacoyannis, facemmo con la stessa produzione Eva  e in quell'occasione ho conosciuto Stanley Backer. Lui mi amava e mi stimava molto. Se sapeva che arrivavo a Londra, mi faceva trovare all' aeroporto una Rolls Royce con l'autista che rimaneva a mia disposizione per tutta la permanenza.. Becker cominciò a fare il produttore e come primo film fece Zulu e mi ha chiamato. Eravamo in Sud Africa. Fu un film faticosissimo, soprattutto per il caldo infernale. Per uno special chiamarono Charlie Cash, un canadese piccolino, uno dei più celebri fotoreporter del mondo (aveva fotografato Churcill durante la guerra e poi tutti i grandi della terra). Arrivò con l'assistente e la moglie.  Rimase dieci giorni, si fece  costruire lo studio nella savana,  dietro un compenso di 25.000 dollari. Le mie foto gli piacquero molto e mi disse che avrei fatto molta strada. Con Becker feci anche il film successivo, Le sabbie del Kalahari, in Namibia. Dopo dieci giorni di lavorazione, Becker ebbe il coraggio di cacciar via il protagonista George Peppard per le continue difficoltà che creava al regista Cyril Endfield, lo stesso di Zulu.  Poi con lui ho fatto tanti altri film, compreso un Landru di Chabrol.

 

- L'aggancio con la Francia com'è avvenuto?

 

Mi hanno sempre chiamato. Perchè conoscevano il mio lavoro. Con Chabrol ebbi un bellissimo rapporto. Mi prendeva in giro perchè come italiano diceva che gesticolavo moltissimo. Io allora di nascosto gli ho scattato un rullino in cui lo riprendevo in diverse espressioni. Stampate le foto, glielo fatte vedere e lui si è fatto una gran risata.

 

- C'è stato, a proposito, qualche regista straniero con cui ti sei trovato in difficoltà?

 

No,  nessuno in particolare.  Inizialmente, ad esempio, ebbi qualche problema con Ken Russell. Lui stesso era stato fotografo e non amava i fotografi. Ma poi viste le prime stampe non mi ha creato nessun problema. Il film era Il cervello da un miliardo di dollari, con Michael Caine protagonista, un attore che conoscevo bene e che ho seguito su un quindicina di set. Era nel cast di Zulu e siccome era uno dei suoi primi film, ogni tanto mi avvicinava e mi chiedeva di farli qualche foto. L'ho poi rincontrato per Funerale a Berlino, (film con Oliver), Il mago (?), fino a Fuga per la vittoria di Huston. Difficoltà, molte, me le ha create Gordon Willis, grandissimo operatore, sul set de Il padrino 3. Era un vero dittatore. Quando doveva preparare la scena non voleva nessuno tra i piedi, nemmeno il regista - e si trattava di Coppola - e quando girava neppure. Non riuscivo a scattare.. Un film non è la vita. Così me ne sono andato, senza chiedere neanche la paga per le settimane fatte.

- Il fatto che fossi molto ricercato anche all'estero, era gratificante per te?

 

Sicuramente. Ho fatto anche dei film della serie di James Bond. Tornati dal Sud Africa venni chiamato per un film che si doveva girare a Sheffield, nel Sud dell'Inghilterra. Non mi avevano dato un indirizzo preciso. Arrivato a Londra non sapevo dove andare. Per fortuna c'era con me mia moglie che conosceva bene l'inglese. Incontrammo una sua amica che stava lavorando alla preparazione di  Operazione tuono e ci invitò ad un party che la produzione aveva organizzato nella suite di un grande albergo, dove lei abitava ala momento. Io avevo con me un pacco di fotografie che misi in una delle camere da letto. Al party c'erano tutte o quasi, le persone coinvolte nel film, dal produttore Broccoli a Sean Connery. C'era anche Harry Solzmann, , il quale, senza che io lo sapessi, si era messo a guardare le mie foto. Solzmann andò a chiedere informazioni alla Paluzzi, l'attrice italiana inserita nel cast. Mi volle conoscere e mi disse: <<Far quindici giorni inizio il film, lo vuoi fare?>>. Otto mesi dopo ricevetti a Roma una sua telefonata in cui chiedeva di incontrarmi a Londra. Mi mandò un prepagato e andai a Londra. Nel suo ufficio mi parlò di Funerale a Berlino, il film che stava preparando. <<Quanto vuoi a settimana?>> mi chiese. Risposi che volevo 600 dollari a settimana, una cifra altissima, tenuto conto che allora - eravamo nel 1965-66 - un fotografo di scena prendeva 70-80.000 lire a settimana. Dopo cinque minuti di silenzio, durante i quali mi aspettavo che mi cacciasse, disse <<Va bene>>.

 

- Che differenza c'era tra i set italiani e quelli internazionali?

 

Sui set stranieri c'era molta professionalità. Basti pensare, ad esempio, che sul set el film su James Bond, tutte le mattine alle otto il produttore faceva una riunione con il regista e i responsabile dei vari reparti. Poi se ne tornava in ufficio e alle nove si batteva il ciak.  In Italia c’era più pressappochismo.

 

- Che tipi di contratto avevi?

 

Con le produzioni straniere sempre settimanali. Anche in Italia. Agli inizi era diverso. Inizialmente il fotografo comprava i rullini e le foto erano sue. Si facevano contratti a forfait. Adesso ti danno tutto e le foto restano di proprietà della produzione.

 

- Non temevi, per il fatto di lavorare molto all'estero, di venir tagliato fuori dal cinema italiano?

 

Non ci ho mai pensato. Guadagnavo bene e questo mi dava una certa tranquillità.

 

- Hai mai lavorato in America?

 

No. Ho seguito film americani in Europa e fuori ma non sono mai andato negli Stati Uniti, anche per problemi sindacali, a parte qualche produzione italiana girata lì. Un'occasione però l'ho avuta. Finito La rapina al treno postale, sempre con Stanley Baker, vado negli uffici della produzione, la Embassy Pictures, per ritirare il mio compenso. Uno dei dirigenti mi dice: <<Peccato non poter continuare a lavorare, ma in questo momento non abbiamo niente in cantiere. C'è solo un piccolo film di recupero con un'attrice di teatro ed un attore esordiente. Tre-quattro settimane di lavorazione: Il laureato. Ma è poca cosa e non ne vale la pena>>. Così ho lasciato perdere. Quel piccolo film è poi diventato uno dei più grandi successi degli anni '60.

 

- Con gli altri fotografi che rapporti avevi?

 

Non c'erano rapporti. Ho iniziato a lavorare insieme a Pierluigi, da Meldolesi. Negli anni '50 ci sono stati dei  momenti di crisi.  Pierluigi, che aveva sfondato, seguiva anche dieci film contemporaneamente. Siccome ci conoscevamo bene, ogni tanto lo andavo a trovare. Ricordo che si inventava dei fotografi pur di non lasciarsi scappare il lavoro. Una volta addirittura mandò a seguire un film una ragazza che aveva in ufficio, una specie di segretaria. Io stavo lì ma mai che mi abbia passato un lavoro.

 

- Tra i registi, c'è stato qualcuno con cui sei entrato in particolare sintonia?

 

Con Rosi mi sono sempre trovato a meraviglia. C'è una sorta di patto non scritto tra noi: quando sono su un suo film,  Rosi mi fa sempre dirigere una scena. Ad un certo punto della lavorazione Rosi dice: <<Questa è per Sergio>>. E io divento regista. La scena della partenza di Lucky Luciano per l'America l'ho girata io. Anche con Antonioni avevo stabilito un bel feeling, tra alti e bassi. Con Tornatore mi sono travato molto bene. Un giorno mi ha detto: <<Sergio, vedendo come lavori, vedendo le tue foto, mi è tornata la voglia della macchina fotografica>>. Spesso, non dico sempre, ma spesso il primo impatto non è stato semplice. Sul set, i primi giorni, mi metto sempre da parte, osservo e scatto. E allora non è sempre facile entrare in sintonia. Poi pian piano la tensione si soglie e si creano legami veri, forti. Ad esempio, quando feci Orazi e Curiazi, film con Alan Ladd, di cui era supervisore alla regia Terence Young - e sul cui set incontrai mia moglie - capitò un fatto curioso. Tornati dal Montenegro, dove avevamo girato gli esterni, andammo a Cinecittà dove si doveva realizzare una scena importante. La produzione mi mandò una lettera in cui si raccomandava di riprendere bene la scena perchè probabilmente la locandina sarebbe stata realizzata da quelle foto. Io non fotografo mai la scena dopo che si è girato, ma dietro quella richiesta precisa mi preparai. Dopo che il regista ebbe dato lo stop, entrai in azione e trovai da ridire con Young.. Poi ci siamo rincontrati, ci siamo spiegati e siamo diventati  amici intimi. Con lui ho poi fatto molti film.

- C'è stato qualche regista che ti ha chiesto il punto macchina?

 

Molti lo chiedevano ma avevano anche l'intelligenza di ascoltare le mie ragioni, per cui scattavo fotto sull'asse della macchina da presa ma facevo anche altri scatti. Con i meno intelligenti non mi mettevo neanche a discutere: eseguivo e basta. A questo riguardo mi ricordo una grande litigata con René Clement, sul set de La diga sul Pacifico, un film prodotto da De Laurentiis, con Silvana Mangano e Anthony Perkins. Lui voleva le fotografie dall'asse della macchina. Io facevo quelle che voleva lui poi facevo anche le altre. E lui si arrabbiava.

- Come ti prepari a un film? Leggi il copione?

 

Quasi mai. Il copione me lo danno ma non mi piace leggerlo. Ormai mi affido all’intuito e all'esperienza,
 

- Con Greenaway come ti sei trovato?

 

Molto bene. Perchè sa cosa vuole e lo fa capire bene. Essendo lui anche pittore, il mio lavoro è stato facilitato. Ho fatto delle foto molto belle sull'altare della patria. Il contratto prevedeva soprattutto foto a colori.

- E del set di Veronesi?

 

Quando mi hanno chiamato per Il mio West sono stato molto felice perchè non avevo mai seguito un western. Nel corso della mia carriera ho fatto centinaia di film, di tutti i tipi ma non ho mai fotografo nè un western nè un  film erotico. Quindi ho accettato volentieri. E sul set s'era creato un bel clima. Un giorno però vedo arrivare un fotografo, mandato dall'ufficio stampa, che comincia  a scattare e fare dei ritratti. Parlando viene fuori che fotografa in funzione della locandina e del manifesto. Questo non mi piace. E io che ci sto a fare? Vado da Veronesi e gli dico che abbandono il lavoro. Lui chiama immediatamente la Cecchi Gori e tutto si sistema. Quando facevo degli special non ho mai tentato di sovrappormi al lavoro del fotografo di scena. In Inghilterra non ho mai accettato un film da solo. Non volevo assolutamente rubare del lavoro a colleghi che lì vivevano e operavano.

- Dei tuoi lavori più recenti, con Benigni e Tornatore, cosa puoi dire?

 

Peppino Tornatore è proprio un regista, "il regista". La leggenda del pianista sull'Oceano ha avuto una lavorazione complicatissima. Anche il mio lavoro non è stato facile. A volte sono stato costretto ad aprire al massimo l'otturatore e a tenere tempi lunghi, un quindicesimo. Per la scena della pioggia, non avevo un posto dove mettermi. Poi ho assistito a veri e propri bracci di ferro tra il regista e Tim Roth. Ma si è trattato di una grande avventura, faticosa e appassionante. Con Tornatore si è creato tra l'altro un forte legame. Lui è proprio un artista. E' uno che ha il controllo assoluto del set.  Anche con Benigni mi sono trovato a meraviglia. E' un vero gentiluomo. Sono stato davvero felice del successo del film.

 

- Oggi usi ancora il bianco e nero?

 

Generalmente oggi ti richiedono il 70% a colori e il 30% in bianco e nero. Io farei il contrario

- Continui a ricevere ancora molte proposte di lavoro?

 

Sì. Ma ormai posso permettermi di accettare solo i film che mi attirano particolarmente.

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